È un inizio di marzo freddo. Dalla
finestra vedo i tetti ancora imbiancati, mentre una pioggia gelida si deposita
ovunque, sospinta da un vento arrabbiato.
Tra poco il calendario riproporrà il
passaggio annuale dall'inverno alla primavera, con la speranza di vedere
spuntare il sole e risentire il suo calore. Prima, però, ci sarà quella data.
Ancora una volta.
La mia mente è di nuovo alla mercé del
passato. Quel giorno si avvicina e non posso esimermi dal ricordare. E così,
scivolo indietro... Indietro...
Era un giorno di sole, con quell’aria
tiepida che ti accarezza il viso, tipica della primavera in arrivo. Avevamo
passato una mattinata allegra in classe, tutti pervasi da quella follia
infantile che sente l’addio della stagione fredda.
Anche la maestra aveva condotto le sue
lezioni lasciandoci un po’ di corda, perché in fondo sapeva che era un giorno
speciale per noi. Infatti, non aveva dimenticato la promessa che ci aveva
fatto: avremmo tutti preparato qualcosa per la festa.
Così, mentre camminavo insieme ai compagni
sulla strada verso casa, pensavo alla sorpresa che serbavo nella cartella. Ero
così orgoglioso! Ci avevo messo un sacco di tempo per prepararla e la maestra
mi aveva aiutato, dandomi suggerimenti, correggendomi e infine lasciandomi
completare la mia idea. Poi il foglio era stato raccolto e legato con un
nastro, a mo’ di pergamena.
Anche gli altri erano tutti euforici,
ognuno con il proprio dono gelosamente nascosto. Doveva essere una sorpresa,
no? E quindi era importante che rimanesse segreta fino all’ultimo!
Camminammo scherzando, parlando, ridendo e
ogni tanto salutavamo qualcuno che si staccava dal gruppo perché giunto a
destinazione. Infine rimanemmo in tre. Abitavamo nella stessa strada. Io fui il
penultimo a sganciarmi. Salutai la mia amichetta e aprii il cancello di casa.
Vicino alla porta del garage c’era il motorino arancione di mamma. Era già
tornata dal lavoro.
La porta dello studio era aperta e potevo
sentire le note di Glenn Miller uscire nell’aria mite. Misi dentro la testa e
lo vidi seduto sulla sua poltroncina blu, di fronte al cavalletto. Stava
osservando il quadro davanti a lui, assorto. Dal posacenere salivano le volute
di fumo di una delle tante sigarette che si dimenticava di aver acceso.
Lo osservai, come se volessi imprimerlo
nella mente per non dimenticare più quel momento. La sua camicia azzurra, il
pullover verde. Le maniche tirate su fino ai gomiti a lasciare scoperta la
pelle bianca e punteggiata da deboli lentiggini.
Gli occhiali con la montatura nera erano
appena un po’ abbassati sul naso, il sopracciglio sinistro leggermente alzato.
Gli occhi vivi, acuti e perduti in chissà quali pensieri. Poi si accorse di me
e mi guardò.
Io entrai allegramente, saltellando. «Ciao
papà!»
Il suo viso si aprì in uno dei suoi
sorrisi dorati, quelli che erano tutti per me. Si scostò dal cavalletto e
ancora con il pennello in mano allargò le braccia. «Vieni qui!» Esclamò.
Io lo abbracciai forte. E lui fece lo
stesso. Mi persi con il viso tra il maglione, la camicia e la sua pelle, che
odoravano di dopobarba, di tabacco e di buono. Di tanto, tanto buono.
Quell’odore suo, che io non dimenticavo mai.
Poi mi scostò e mi arruffò i capelli.
Mentre appoggiavo a terra la cartella e riponevo la giacchetta sulla sedia a
fianco del tavolo mi chiese com’era andata a scuola. E io gli dissi che avevamo
fatto tante cose, di questo, di quello, ma sempre con il mio segreto nascosto.
In quel momento entrò la mamma, che aveva
il grembiule da cucina e l’aria un po’ stanca, ma sempre bellissima. I lunghi
capelli neri legati con una coda alta. Si appoggiò allo stipite della porta.
«Ma sei già qua». Disse sorridendo.
Aveva ragione, io di solito tardavo
sempre. Tra una chiacchiera e l’altra, all’uscita da scuola mi perdevo sempre
in mezzo alle lancette, ma non quel giorno. Quello era un giorno speciale. E
mamma, che mi conosceva, capì che avevo qualcosa di diverso. I suoi occhi mi
scrutavano e indagavano e io capii che non ce l’avrei fatta ad attendere fin
dopo pranzo. Ero troppo eccitato.
«Tu hai qualcosa». Mi disse con la sua
espressione dal broncio divertito.
Papà la guardò con fare interrogativo.
«Qualcosa?» Disse.
«Oh, accidenti!» Esclamai. «Non ci riesco
ad aspettare!» Mi chinai sulla cartella, la aprii e presi la “pergamena”.
Entrambi mi osservarono incuriositi.
Io andai vicino a lui e gliela porsi. «Auguri,
papà! È la tua festa oggi!»
Lui strinse gli occhi. Un mezzo sorriso
dipinto sul volto. Guardò ora me, ora il foglio legato dal nastro. Poi lo prese
dalle mie mani e mi attirò a sé, abbracciandomi di nuovo.
A malavoglia mi staccai subito. «Aprilo,
su!»
Lui slegò il nastrino e lo pose accanto
alla tavolozza, dove campeggiava un intenso arcobaleno di colori freschi.
Srotolò il foglio e lo guardò. E lo guardò ancora. Poi le sue palpebre si
abbassarono e quando le riaprì c’era un velo nei suoi occhi, un debole velo di
lacrime. E mi regalò uno dei suoi sorrisi più dolci. Mi abbracciò ancora, ma fu
diverso questa volta. Fu intenso e profondo, tinteggiato da tanti “grazie,
amore” che si perdevano nel mio cuore di bambino.
La mamma rimase sulla porta, lasciandoci
quel momento solo per noi, anche se la udii singhiozzare debolmente. Commossa.
Il foglio scivolò dalle dita di papà si
fermò sulle sue gambe.
Un piccolo disegno di montagne lontane, di
un altro mondo. La mia visione dei paesaggi che lui dipingeva tanto spesso. E
accanto, poche righe:
“Auguri al mio meraviglioso Papà,
per la sua Festa!
Perché io sono tanto felice
che tu sia il mio Papà
e perché sei il Papà migliore
dell’universo!”
Un disegno provato più e più volte e
qualche parola, con l’aiuto della maestra, per riuscire a dargli una prova del
mio amore. Un amore che non aveva eguali e non ne ha mai avuti.
E io non sapevo che quella sarebbe stata
la nostra ultima Festa del Papà. Non sapevo che non avrei avuto più
nessun'altra occasione.
Non lo sapeva nessuno.
Oggi sono qui. E quegli anni sono lontani.
Tanto, tanto lontani. Quel foglio non c’è più. Perduto anch’esso tra le sabbie
del tempo.
Oggi sono qui e aspetto il giorno della
tua festa, Papà. Non ti posso guardare negli occhi, non posso sentire le tue
mani, le tue braccia. Non posso sentire l’odore della tua pelle che si mischia
al tabacco e al dopobarba. Non c’è più l’odore dei colori a olio con cui
riempivi le tele di mondi remoti. I tuoi mondi meravigliosi.
Non c’è più la tua voce che mi parla. Non
c’è più il tuo alito caldo. Non c’è più il battere del tuo cuore quando mi
addormentavo su di te.
Tutto questo è scomparso. Ci sono solo i
ricordi. E sono tutto quello che ho di te e non li cambierei con nient’altro al
mondo, credimi Papà, con nient’altro al mondo. Il ricordo di te è il mio Tesoro
più grande.
Io oggi sono qui, a pensare a tutte le
Feste del Papà venute dopo. A quanto mi sei mancato. A quanto mi mancherai. A quanto
mi manchi, ogni singolo giorno.
Quando il dolore sale, sai, io stringo le
mani e chiudo gli occhi, apro la mia memoria e ti ritrovo come allora. Lì,
bello e forte e dolce e stupendo. Con la tua mente straordinaria e il tuo cuore
immenso.
E quando riesco a non piangere, sorrido.
Chiedo aiuto alla forza della ragione e so, ne sono sicuro, che sono stato
fortunato. Perché un Amore così non tutti riescono ad averlo.
Io ti ho avuto. Ho avuto te, Papà, e non
c’è nulla che potrà mai toglierti da me.
Perché sei dentro di me. Nella mia mente,
nel mio spirito, nel mio cuore. Nel mio tempo.
Non te ne sei mai andato. Né da quel
bambino, e nemmeno da quest’uomo.
Auguri, Papà.
Ti amo da sempre e ti amerò per sempre.
Per Sempre.
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