Quante volte, quante, mi sono trovato sulla linea spezzata di una parola sanguinante, mentre raccoglievo le ultime briciole dalla tavola vuota.
L'orologio sul muro ha continuato a ossessionarmi con la sua voce sarcastica, senza permettermi di replicare, fottuto bastardo, ma l'ho staccato, pestato, colpito, distrutto e bruciato.
E lì, nell'oscuro orifizio tra un secondo ticchettante e un minuto terminato, ho ascoltato le grida di libri appesi alla falce gocciolante di una luna gelida, indifferente, come i solchi lasciati dalle frasi di un manichino.
Prendilo, dicevo al vuoto, prendilo questo cuore pulsante di bestemmie atone, ricurve come uncini e incrostate di promesse infangate, che non lo tengo più e non lo sento più. Forse nemmeno l'ho mai voluto!
La linea si muove. E' spezzata e si muove ancora. Non sente ragioni e mi trattiene e mi chiama, forte delle catene conficcate nelle carni un tempo forti e ora flaccide, stanche, cariche solo di pensieri sgranati.
Parole. Parole che si mischiano allo sterco e ne imitano fedelmente l'odore, la forma, e con ributtante arroganza si fingono pulite, agganciandosi a cervelli informi, avulsi da qualsiasi battito vitale.
La tavola chiama. La sedia mugugna. Lo specchio raschia vecchie immagini da un barile sfondato e l'urlo di cadaveri dimenticati si erge sulla parete scrostata.
E' limpido il sangue che cola dalle dita mentre disegno arabeschi in memoria di domani. Lascio che il rantolo della sedia a dondolo si erga come un martello e cali sul cranio del tempo, senza che la mia bocca emetta un solo alito.
Indico al passato la via per proseguire e mi adagio sulla polvere di una notte ringhiante, lastricata di orme invisibili.
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